FAB: l’amarsi e la luna, l’uomo e la terra
Un disco importante questo “Maps for Moon Lovers” che segna un ritorno in scena di Fabrizio Squillace, cantautore rock calabrese che in arte conosciamo come FAB. Una seconda prova che contiene 8 inediti di sfacciato stampo inglese, anche in quel rock contaminato un po’ rimandante alle oniriche distanze sonore degli U2. FAB scrive di pancia probabilmente e immagina questo sguardo dalla Luca, immagina la terra e gli uomini che la vivono, immagina un punto lontano per guarda tutto ciò che ci riguarda. Un disco che fa il punto della situazione o che magari cerca le risposte a tante domande. Bellissime tinte di organo ed elettronica nella corsa metropolitana di “Shoreditch Girl” o la solare riflessione di “Sleep” oppure l’intro magico di “Song for Moon Lovers” in cui avrei ben visto un disegno di hang. Spesso avremmo preteso da questo disco più ruggine e più forza nelle distorsioni ma a quanto pare è la contemplazione più che la rivoluzione – come dice molta critica di questo lavoro. “Maps for Moon Lovers” culla i miei pensieri durante un lungo viaggio in treno tra le città e le campagne che ancora restano in mezzo.
Un nuovo disco dopo “Bless”. Impossibile non chiederti di dirci le grandi differenze di sound e di scrittura…
“Bless” e’ stato un disco scritto di getto, istintivo, molto intimo e riflessivo, anche se di fondo c’era una grande rabbia a legare i diversi episodi dell’album. Una rabbia “grunge” oserei dire, un animo sporco e ruvido celato da un vestito elegante, educato e folk, dal piglio cantautoriale e malinconico. “Maps for moon lovers” ha avuto una genesi totalmente diversa, molto più lunga e “ragionata”, frutto della voglia di sperimentare e osare. Sentivo il bisogno di utilizzare nuovi strumenti e nuovi suoni per farli convivere in un album dal sapore più moderno. Un’operazione affascinante che alla fine mi ha dato grandi soddisfazioni. Non mi sono accontentato del primo ascolto, per quanto già convincente, ma ho provato ad andare oltre battendo nuove strade.
E Fab come artista? Che grandi differenze sta vivendo con questo nuovo lavoro?
Il contesto musicale è totalmente differente rispetto al tempo in cui registrai “Bless”, nonostante siano trascorsi solo 4 anni. In Italia, in particolare, la scena mi pare a corto di idee e non vedo una reale spinta innovatrice che possa condurre a grandi risultati. In generale penso che la fruizione della musica attraverso il meccanismo dei social abbia giocato un ruolo fondamentale e cio’ che un tempo pareva essere una scorciatoia per il successo si è in realtà rivelata un grande bluff. Tutti possono diventare famosi per cinque minuti su facebook o YouTube ma la sopravvivenza artistica non va oltre questo lasso di tempo. Troppa l’offerta, difficile dare ordine ad un movimento così vasto e complesso. Al riguardo ammetto di essere parecchio frastornato.
Ma Fab è anche uno scrittore o sbaglio? C’è un libro da segnalare…
Da anni scrivo racconti, mi piace la dinamica “breve”, la storia che nasce e muore nel giro di poche pagine. In fondo è lo stesso meccanismo alla base della composizione di una canzone, raccontare qualcosa avendo a disposizione pochissime battute. Dentro il nuovo disco ci sono otto nuovi racconti, nient’altro, e penso che tutto torni. “Maps for moon lovers” e’ una raccolta di piccole storie costruite su un microkorg, un piano rhodes e una manciata di accordi aperti. Era una idea che mi portavo dietro da una vita quella di dare un vestito musicale a vicende che altrimenti avrei inserito in una raccolta letteraria. Poi si, una volta mi sono spinto oltre e ho scritto qualcosa di più lungo, un romanzo a tutti gli effetti dal titolo “Viceversa”, una favola moderna ambientata nella mia città, Catanzaro. Ho vinto anche un premio importante nell’ambito di un concorso indetto dalla Provincia di Catanzaro e la cosa mi ha lusingato molto.
Dunque come non chiederti: quale dimensione ti rappresenta di più?
Il palco, decisamente. Quella è la mia dimensione naturale. Ho bisogno di sentire una batteria che si agita dietro di me, di scorgere i tratti di un chitarrista e di un bassista al mio fianco mentre mi aggrappo ad un microfono. Difficile spiegare cosa si provi, semplice capire che non se ne può fare a meno. Attraverso la musica riesco a coniugare la necessità di raccontare e di raccontarmi, senza maschere di sorta, con tutta l’autenticità di cui sono capace. Stare in piedi davanti ad un pubblico può sembrare pericoloso ma costituisce in realtà la forma più alta di liberazione e allo stesso tempo di autocontrollo.
E poi l’inglese. Cosa ti spinge a scrivere utilizzando questo tipo di linguaggio piuttosto che il nostro italiano?
Adoro questa lingua, la sua musicalità, la sua brillante immediatezza. E penso che, nonostante molti artisti italiani siano riusciti a coniugare eccellentemente il rock con la lingua italiana, il terreno prediletto dove “concimare” questo genere di musica rimane comunque l’inglese. Sono cresciuto ascoltando la prima scena brit degli Oasis e dei Blur, così come ho apprezzato il grunge anni 90 di Seattle e poi l’ultima ondata anglosassone capitanata da Artic Monkeys, Franz Ferdinand e Kasabian. A mio avviso questa musica, suonata in quel modo e con quel piglio tipico d’oltremanica, ha una marcia in più rispetto agli stessi tentativi fatti in altre lingue.
Ascoltando questo disco penso proprio che non suonerebbe bene in italiano. Ma secondo te certi generi e certe canzoni, sono figlie dell’inglese?
Come detto poc’anzi assolutamente si. Parliamo di genere nati in quel contesto specifico ed e’ chiaro che qualunque tentativo di adattamento ad un’altra lingua può risultare sicuramente piacevole ma difficilmente di pari livello. In Italia mi vengono in mente gli Afterhours, perché mi pare l’unico esempio di una band in grado di raggiungere risultati eccellenti facendo convivere un rock tipicamente britannico con la lingua italiana. La scrittura di Manuel Agnelli, il suo modo di porsi rispetto a questa vicenda, rimane per me un esperimento irripetibile. Quindi in definitiva direi che non riesco ad immaginare i brani di “Maps for moon lovers” cantati in lingua italiana, così come in generale non vedo la necessità, specialmente di questi tempi dominati da una visione globale e planetaria, di scrivere in italiano piuttosto che in tedesco o in polacco. L’inglese arriva dovunque e se devo comunicare un’emozione, raccontare una storia o difendere un’idea preferisco che il messaggio venga compreso da persone che si trovano dovunque e non solo in Italia.