RECENSIONE: Northern Lines – Farts From S.E.T.I. Code
Un mero esercizio stilistico. Un compito a casa. Un espediente puramente auto celebrativo. Sono queste le impressioni che mi lascia “Farts From S.E.T.I. Code“, album di debutto del trio romano Northern Lines.
Eppure l’interpretazione strumentale di generi come il progressive od il jazz ha sempre saputo affascinarmi, incantarmi. In questo senso ho creduto per lungo tempo d’essere poco obiettivo, di parte, innamorato di un ideale. L’ideale che può sostenere una proposta artistica che non impone messaggi, ma ne catalizza la genesi. Sulla carta tutto facile, penso. Un disco strumentale, relativamente breve (poco più di 30 minuti), ambizioso, contaminato.
Qualcosa poi non scatta, non funziona. Che la tecnica d’esecuzione e di scrittura siano estremamente importanti per interpretare situazioni armoniche di questo tipo, è dogma noto a tutti. La tecnica deve essere però soltanto un mezzo. Il veicolo che porta l’ascoltatore verso l’empatia. È l’empatia fra chi suona e chi ascolta che realizza il pieno senso di una proposta strumentale. Se manca questo sentimento, manca tutto. I Northern Lines maneggiano bene la tecnica. La usano per plasmare dinamiche ed intensità. La usano fino al punto di non ritorno. Quello in cui le strutture diventano solo matematica. Quello in cui il messaggio si perde e rimane solo la meccanica di movimenti perfetti. È bene però non fraintendere questo aspetto. Esistono dischi estremamente più tecnici di questo, ma in ogni caso assolutamente apprezzabili. È il rapporto fra tecnica e messaggio che conta, non la loro presenza intesa singolarmente.
Ci prova Stalin a smuovere qualche emozione. A dare una scossa. Paradossale che, in un disco strumentale, ci si ritrovi a cercare un barlume di emotività nella rarità del parlato.
Tante parole si. Ma in concreto cosa manca?
Manca la spontaneità. Mancano soluzioni armoniche e sonore che sappiano andare oltre la complessità ritmica e solistica. Manca un certo tipo di atmosfera che è imprescindibile in una proposta di questo tipo. I suoni utilizzati sono pochi per un disco che possa risultare interessante. Manca anche l’originalità a dirla tutta. La proposta pesca a piene mani da un certo tipo di progressive strumentale noto ai più, anche se le contaminazioni fusion risultano comunque molto apprezzabili.
Un band che si dimostra straordinariamente capace dal punto di vista esecutivo, ma che deve trovare un’identità sonora comunicativa, vincente. Non mi ha entusiasmato. Mi piace continuare a pensare che la musica strumentale, nella sua interezza, possa essere più di questo.
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Voto: (5 / 10)
Tracklist:
1. Pop Krieg
2. Inside a Yellow Cave
3. You Glorious Bastard
4. Plastic Zen
5. Northern Lines
6. Rajung
7. Tale of a Blowfish
8. Her Majesty’s Rage
9. The Laughing Heart