RECENSIONE: Anathema – Distant Satellites
“Will surely be recognised as their finest album to date.”
Un comunicato stampa che comincia in questo modo è ben più d’una iniezione di fiducia nei confronti dell’ascoltatore. Si tratta di un manifesto pretenzioso quasi a dire “Hey siamo gli Anathema bello e ci siamo scrollati di dosso la sfiga pazzesca degli ultimi 15 anni”. In realtà la rinascita di una band che sembrava ormai persa fra burocrazia e problemi personali comincia nel lontano 2010, quando Steven Wilson, leader dei Porcupine Tree, decide di sposare il progetto dei fratelli Cavanagh, almeno per quel che concerne la fase di missaggio. Ne esce fuori “We’re Here Because we’re here”, un disco che riprende le atmosfere più solari di “A natural Disaster” e che viene ovviamente impreziosito dal taglio neo-progressive quasi inevitabilmente scaturito dalla mano di Steven Wilson. E’ fatta quindi, finalmente loro, finalmente gli Anathema. Un successo annunciato che riporta la band di Liverpool sui palchi importanti, quelli che contano.
Il tutto prosegue con “Weather System” , una storia che i fan conoscono molto bene. Daniel torna sulla chitarra acustica, come probabilmente faceva da ragazzo, e comincia a scrivere. Scrive della vita e della morte, costruisce un concept solido e delle fondamenta di granito che poggiano su un fingerpicking di straordinaria fattura. La rinascita si compie. Il successo è globale; gli Anathema rilasciano perfino un DVD: “Universal”, registrato nella splendida cornice Bulgara di Plovdiv.
A questo punto la band torna in sala prove. Daniel ricomincia a scrivere; che la chitarra sia stata abbandonata nel song-writing non è un segreto . L’iter che possiamo ipotizzare è quello di un disco dove i pezzi sono nati sul pianoforte, attraverso campionamenti, probabilmente con tanto lavoro al pc. Sotto questo punto di vista “Distant Satellites” rappresenta una svolta non di poco conto. All’interno dell’album le chitarre sono totalmente marginali, relegate ad un ruolo secondario. E se ad un primo e superficiale ascolto questo disco riesce quasi ad apparire come la naturale evoluzione di “Weather System”, successivamente si mostra per quello che realmente rappresenta: un album in pieno stile Anathema per quel che concerne gli arrangiamenti, ma con un song-writing profondamente diverso. Un fan potrebbe sorvolare sull’importanza di questa affermazione. In realtà si tratta di un punto cardine per comprendere lo status quo artistico di questa band. Steven Wilson torna a dare una mano; la cosa si sente, ma si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una collaborazione più superficiale rispetto al passato. Leggendo attentamente i credits si riesce a scoprire la verità che si cela dietro questa ipotesi. Partecipa al missaggio si, ma non segue l’intero album. Il lavoro è affidato principalmente a Christer-André Cederberg, già addetto al missaggio in “Weather System“.
A questo punto si compie il primo errore madornale, che impedisce a “Distant Satellites”, d’essere il tanto agognato album della consacrazione. Questo disco suona inevitabilmente come il precedente ma è un prodotto completamente diverso sotto il punto di vista artistico. Un cambiamento così drastico, in peggio a parer mio, per quel che riguarda il song-writing, avrebbe sicuramente dovuto prevedere una genesi differente rispetto a “Weather System”. Ed ecco quindi che ci si accorge di come l’ultimo disco degli Anathema manchi completamente di dinamica. La voce si siede su delle atmosfere, ben scritte, straordinariamente arrangiate, ma che non decollano quasi mai. Daniel alla chitarra lavora di fino, ma si ha l’impressione di un musicista un po’ in rotta con il suo strumento cardine. In realtà brani quali “Anathema” e “Distant Satellites” appaiono come i più riusciti in una situazione di profonda stasi dinamica. Infine si riesce a scorgere il paradosso più grande quando ci si rende conto che John Douglas (batteria) riesce a fornire una delle prove più convincenti della sua carriera. Come può un disco ritmicamente notevole suonare incredibilmente piatto?
La risposta a questo enigma risiede proprio nella gestione delle stratificazioni strumentali che costruiscono “Distant Satellites”. Fatte le proprie riflessioni strettamente critiche però ci si ritrova davanti ad una innegabile evidenza: la band di cui si parla sono gli Anathema. Ed ecco quindi che, come le grandi squadre che vincono giocando male, perfino in una prova non particolarmente brillante riescono a piazzare dei colpi vincenti. “Distant Satellites” ha un significato artistico ben preciso . E’ un disco profondamente intimista, volutamente lento e pensato per essere sempre un passo indietro rispetto all’immaginazione dell’ascoltatore. Un album che cerca di dirti ” Ehi frena, non siamo ancora a quel punto”. Il vero grande difetto è che quando deve smettere di dirtelo continua a ripetertelo. La strada intrapresa dai fratelli Cavanagh è però molto interessante. Le chitarre pensate come mere didascalie possono essere un’evoluzione importante, una trovata che saprà in ogni caso dare i suoi frutti. Non è sicuramente il miglior disco della band di Liverpool , si tratta però di una buona conferma, considerando anche che ci troviamo di fronte al terzo album in quattro anni. Probabilmente la consacrazione definitiva dovrà aspettare. Nel frattempo Daniel ci regala un viaggio pieno di emozioni, impreziosito dalle performance incredibili di Lee Douglas e dal sempre puntuale Vincent Cavanagh.
Nessuna bocciatura, soltanto un’ inevitabile fase artistica che, col tempo, porterà questa band in cima, dove merita di stare sin dall’inizio.
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Voto: (6,5 / 10)
Tracklist:
01. The Lost Song, Part 1 (5:53)
02. The Lost Song, Part 2 (5:47)
03. Dusk (Dark Is Descending) (5:59)
04. Ariel (6:28)
05. The Lost Song, Part 3 (5:21)
06. Anathema (6:40)
07. You’re Not Alone (3:26)
08. Firelight (2:42)
09. Distant Satellites (8:17)
10. Take Shelter (6:07)
Formazione:
- Vincent Cavanagh – lead vocals, electric guitars, acoustic guitars, bass guitars, keyboards, programming, backing vocals
- Daniel Cavanagh – co-lead vocals, electric guitars, acoustic guitars, bass guitars, keyboards, piano.
- John Douglas – e-drums, percussion, keyboards, programming
- Lee Douglas – lead vocals, co-lead vocals, backing vocals
- Daniel Cardoso – drums
- Christer-André Cederberg – bass guitar, producer, mixing