“Le rane di Fussli” di XantiSchawinsky87
Nel dibattito odierno relativo alle classificazioni dei periodi artistici, regna sovrana una confusione nella quale è arduo orientarsi. Sui manuali di storia, è noto che l’età moderna va dalla scoperta dell’America del 1492 alla rivoluzione francese, inaugurata nel 1789: una periodizzazione che, con tutti i limiti delle categorie di matrice didattica, finora resta l’unico parametro universalmente valido per dividere la storia in capitoli ben definiti. I problemi sorgono, però, se pensiamo alla denominazione ufficiale di alcune tra le più importanti sedi istituzionali dell’arte contemporanea: infatti, tutti i musei accomunati dalla presenza massiccia, nelle loro collezioni, di opere realizzate nell’Ottocento e nel Novecento, invece di contenere, nella loro intestazione, l’aggettivo “contemporaneo”, presentano, inspiegabilmente, l’attributo “moderno”. Basti pensare alla Gam (Galleria civica di arte moderna) di Torino e alla Gnam (Galleria Nazionale d’arte moderna) di Roma, solo due esempi paradigmatici di una questione, quella delle periodizzazioni stabilite dal sistema storiografico, lontana dalla sua definitiva e condivisa risoluzione. Probabilmente soltanto la Gamec, Galleria di arte moderna e contemporanea, di Bergamo ha individuato la soluzione più pacifica: adottare entrambe le qualifiche per comprendere diversi secoli di arte, così da non correre alcun rischio storiografico. Sano pragmatismo lombardo.
In questa annosa questione, però, a complicare ulteriormente le cose ci ha pensato Renato Barilli, uno dei più apprezzati critici e storici dell’arte italiani, con un libro “Tutto sul postmoderno”, dal titolo dichiaratamente ironico, presentato alla libreria Feltrinelli di via del Babuino (purtroppo prossima alla chiusura) a Roma, lo scorso 11 novembre. Il saggio, in realtà, è una silloge di quattro lezioni tenute dal professore nel dicembre 2012 a Cartagena, in Colombia, nelle quali l’idea portante è la seguente: sostituire l’etichettà di “età contemporanea” con quella di “età del postmoderno”. Barilli, cresciuto a pane e McLuhan (il celebre sociologo canadese, studioso di comunicazione e mass-media, chiamato in causa da Woody Allen in una delle scene più divertenti di “Io & Annie”) ha risuscitato la categoria del postmoderno, già utilizzata, a partire dagli anni Settanta, in architettura da Charles Jencks, per indicare l’epoca originata da una scoperta fondamentale che ha segnato una rottura epocale nella cultura contemporanea: l’elettromagnetismo, dal quale sarebbe poi derivata, decenni più tardi, l’elettronica. Per Barilli, le figure congestionate che popolano gli incubi dipinti da Fussli, non sarebbero state possibili senza gli spasimi delle rane utilizzate da Luigi Galvani nei famosi esperimenti che portarono il fisico bolognese alla scoperta della cosiddetta “elettricità animale”. I grandi cicli dell’umanità infatti, secondo il pensiero di Barilli, formatosi sulla scia del saggio di McLuhan, “The Gutenberg galaxy”, nascono in concomitanza con grandi scoperte tecnologiche. Come l’età del postmoderno prende le mosse dagli spasimi dei muscoli delle rane di Galvani, così l’età moderna nasce dal piombo della stampa a caratteri mobili del tipografo tedesco.
Nel dibattito che ha visto, fra gli altri, intervenire Stefano Chiodi, storico dell’arte de «Il Manifesto», accanto a due protagonisti dell’arte concettuale italiana, Luigi Ontani e Luca Patella, grande rilievo ha assunto il concetto di “estensione normalizzata”, peculiare del postmoderno, adottato da Barilli per indicare il rapporto di dilatazione che ha contraddistinto l’eredità delle avanguardie storiche raccolta dalle neoavanguardie del dopoguerra; per dirla alla Eco, i primi avanguardisti del Novecento, come Duchamp, Marinetti rappresentano la generazione di Vulcano, veri e propri spregiudicati titani nel rivoluzionare i codici espressivi dell’arte; mentre i neoavanguardisti, ad esempio quelli italiani del Gruppo 63, appartengono alla generazione di Nettuno, freddi, circospetti nel dare continuità alle provocazioni dadaiste e surrealiste.
A margine della presentazione del volumetto di Barilli restano pero un paio di perplessità. La prima: senza ombra di dubbio, lo sgomento suscitato dagli ultimi ritrovati scientifici era già stato raccontato, in modo peraltro sublime, ben venti anni prima rispetto agli esperimenti di Galvani, dal grande pittore Wright of Derby, un artista capace già negli anni Sessanta del Settecento di registrare sulla tela tutte le ansie e le inquietudini legate al progresso scientifico e alle sue degenerazioni, poi trasformate in mostri terrificanti da Fussli. La seconda: probabilmente l’unica considerazione che può fugare ogni dubbio circa una corretta valutazione delle periodizzazioni storiche in ambito artistico può essere quella di Vittorio Sgarbi, quando afferma in uno dei suoi saggi più recenti: «tutta l’arte è contemporanea». Davanti a questa lucida constatazione, rane (e capre) si dileguano.
XantiSchawinsky87