Il rap statico e standardizzato dello stivale
“Negli anni ’90 ognuno portava avanti la propria storia, il proprio stile, la propria ballotta”.
Questa è la frase che mi sento dire da diversi amici che hanno avuto la fortuna di nascere qualche anno prima di me e di vivere la cosiddetta “golden age” italiana.
Oggi, 2010, dovremmo trovarci davanti una scena matura, consapevole delle proprie radici, ma aperta alle innovazioni. Invece, personalmente, mi trovo di fronte a una scena scialba e statica.
Ovviamente c’è gente che spacca, che ha trovato un suo stile e cerca di portarlo avanti, di evolverlo. Ma la maggior parte delle robe che escono oggi suonano allo stesso modo. E’ come dire: “c’è un sound standard e devo seguirlo se voglio fare rap in Italia”. E’ normalissimo prendere spunto da qualcuno all’inizio: hai un tuo MC preferito e cerchi ispirazione dai suoi testi, dalle sue rime e quant’altro, ma ci deve pur essere un punto in cui si diventa autonomi, si “studia il rap”, si cerca e alla fine si trova un proprio stile!
Il fatto che nel 2010 esista uno standard nel quale quasi tutti gli artisti (o presunti tali) cercano di rientrare, fa capire che un problema all’interno dell’underground esiste.
Dai primi pezzi rap italiani agli anni ’90, la scena cresceva; ogni MC, ogni crew aveva un suo suono, un suo modo di concepire testi e produzioni. Guardate i Sangue Misto, Lou X, Ice One e gli stessi Colle Der Fomento, Kaos, Assalti Frontali, 13 Bastardi, molti altri partenopei e molti altri sparsi sullo stivale e sulle isole.
Oggi (personalmente, ma credo sia un dato di fatto) tutti fanno rap, tutti scrivono testi, e mi meraviglio di qualcuno che ingenuamente afferma: “Meglio così… la scena incrementa!”. Ok. La scena incrementa quantitativamente, ma la qualità? Non solo: c’è soprattutto lo stile personale che ognuno porta avanti? Proprio questo è il problema.
Molti, quasi tutti, arrivano ad un livello base: “le parole filano, la metrica ci sta, le basi pure”, lasciando da parte l’attenzione nello scrivere, la ricercatezza nelle rime. Troppo facile a mio parere. Senza parlare dei testi con forme verbali errate.
Provate ad ascoltare i testi di Lou X come “La Raje” o “5 minuti di paura”. Poesia pura! E se vogliamo possiamo anche ascoltare tutto “Odio Pieno” dei Colle, potente e grezzo al punto giusto. Poi, il mitico “Fastidio” di Kaos. Tutto questo si chiama semplicemente BUONA MUSICA.
Ora, non voglio fare il “conservatore”, quello che dice “dobbiamo tornare indietro”, anche perché è un ruolo che non mi appartiene. Quindi dico che quel tipo di rap (che spacca di brutto) è stato concepito negli anni ’90. Le nuove generazioni (sempre a mio parere) non dovrebbero fare altro che apprendere quello che gli è stato dato da questi pesi massimi ed applicarlo in modo nuovo. Non bisogna copiarli spudoratamente (anche perché se li copiate vi esce male), ma non bisogna neanche abbandonare le fondamenta che hanno gettato loro. Lo stile personale è importante, avere una propria evoluzione lo stesso.
Quindi va bene pensare di essere hardcore, va bene pensare di avere stile, va bene anche fare punchlines e quant’altro, l’importante è essere consci di quello che si sta facendo e scrivendo. Soprattutto mai fermarsi. Mai dire “adesso è perfetto”. Mettersi in gioco continuamente, confrontarsi (non parlo di stupide e banali sfide, attenzione). Questo, secondo me, dovrebbe tenere in vita il rap. Mentre il profilarsi di un momento di riposo troppo lungo porta alla staticità, ossia la morte di un genere.
Il celebre Charles Bukowski aka Hank aka Cinaski aka quello-che-volete-voi scrisse più o meno questo: “l’artista non è ritenuto tale per quello che ha scritto dieci anni fa, un anno fa o per quello che ha scritto ieri sera, ma dev’esserci un ‘continuum’”. Ad esempio, se hai scritto un solo libro e la tua carriera da romanziere è finita, nonostante tu abbia battuto il record di vendite, fin quando non ti rimetterai in gioco sarai considerato soltanto un uomo che è stato, a suo tempo, un bravo scrittore, ed ora non lo è più. Non so se quest’affermazione/visione, forse scontata, c’entri qualcosa col discorso iniziale, ma rende bene l’immagine statica della fine di un’entità.
Molti avranno sicuramente idee contrastanti con quello che ho detto finora. A questi chiedo, umilmente, “da troppo tempo gli argomenti sono rimasti di base sempre gli stessi, le produzioni anche. Molti (troppi) si rifanno ai compari d’oltreoceano senza minimamente sforzarsi di creare un proprio suono. Allora vale davvero la pena ascoltare questo rap italiano?”
Secondo il mio punto di vista sarebbe meglio cercare quegli artisti che davvero si impegnano a fare qualcosa di nuovo e intelligente senza scadere in vacue banalità.
La novità (accompagnata dall’originalità e dall’intelligenza) non deve far paura; la standardizzazione non deve prevalere a scapito dell’espansione degli orizzonti.
Chiudo con un ringraziamento rivolto a tutti quelli che capendo l’infinito potenziale del rap fanno seriamente le loro cose alzando il livello di questo genere musicale pur non facendo milioni.
nel rap come in altri ambiti musicali esiste un problema di fondamentale importanza: manca la passione!!! ..la passione dovrebbe essere sempre il cuore pulsante della musica, che invece troppo spesso finisce per diventare nientepiù che carne morta..e allora si finisce per accontentarsi,per non sbattersi più giorno dopo giorno in cerca di idee sempre nuove e vitali, per cullarsi su fantomatici allori in plexiglass…più passione checcazzo..più passione!!!
MADONNA MIA PAROLE SANTE!!!!!…GRANDE ALè….QSTO è IL TUO MIGLIORE ARTICOLO!…SPERANDO POSSA SERVIRE A QLKOSA…O MEGLIO…A QUALCUNO!…O MEGLIO ANCORA…A MOLTI!!……STAY HARDCORE!!…TUTTA LA VITA!!!
Grazie mille Pazzo! Grande DevilA che ha introdotto un fattore importantissimo, forse da me tralasciato: LA PASSIONE!
Stay Hardcore in tutta la penisola, “isole comprese”
Vi dimenticate di un fatto molto importante nella musica: Casa discografica.
Molti contratti discografici impongono che in un dato periodo di tempo ( di solito si parla di anni) l’artista deve pubblicare un certo numeri di cd.
Se l’artista non è ispirato (potete rimpiazzare “ispirato” con qualsiasi parola a voi più gradita) si ritrova nella posizione di dover per obbligo creare; e questa creazione si rivela, ovviamente, “na cagata”.
Così funziona da anni, e così continuerà a funzionare… A quel punto l’artista dovrebbe dire: “ma vaffanculo, casa discografica!”… Non tutti ci riescono, e quei pochi che invece possono si creano i propri marchi discografici. Per il resto degli artisti sapete cosa capita.
comunque riguardo le case discografiche..il problema non è tanto il numero di cd imposti in un certo periodo di tempo deciso a tavolino, quanto il fatto che siano loro a decidere qualsiasi cosa al posto del gruppo o artista di turno!!e ovviamente sono scelte dettate da quello che la gente vuole sentire e vedere, quindi viene imposto di fare determinate canzoni,con determinati testi, vestirsi in una certa maniera..tutto a guadagno delle vendite ma il più delle volte a discapito della qualità della musica stessa,e sempre a discapito della originalità e fantasia dell’artista che non è più tale ma semplicemente una marionetta nelle loro mani!!
mi permetto di rispondere a Blackbird…
nel rap, e io parlo della scena underground (perché di rap nel musicbusiness non ne sento neanche il lezzo…) la maggior parte dei prodotti in uscita sono autoproduzioni quindi i cosiddetti “rappers” non hanno obblighi nei confronti di major, fanno quello che fanno perché ne hanno voglia…
A maggior ragione dovrebbero metterci più impegno e più passione, ma anche più intelligenza nel fare musica.
Ovviamente, parlando di musica in generale puoi avere tutta la ragione di questo mondo…
Sapevo che mi avresti risposto così ma ho voluto commentare lo stesso hahahaha 😛