LIVE REPORT: The Residents Live @Estragon (Bologna), 14/05/2010
Ho voluto aspettare un po’ di giorni prima di accingermi a quella che ritengo una difficile descrizione di uno spettacolo live al quale ho potuto assistere il 14 maggio scorso.
Sul palco dell’Estragon di Bologna c’erano niente meno che i Residents, storico gruppo californiano attivo sin dalla fine degli anni sessanta e uno dei più rappresentativi del movimento musicale Avantgarde, che annovera altri gruppi come Renaldo And The Loaf, Captain Beefheart And His Magic Band e lo stesso Frank Zappa, che dicerie vogliono come componente e fondatore del complesso, mistero alimentato dalla loro scelta di nascondere sempre e comunque la loro identità al pubblico utilizzando mascheroni vari nel corso della loro ormai quarantennale carriera (dal famoso bulbo oculare con frac e cilindro ai costumi da Kukluxklan per l’album “The Third Reich ‘n Roll” e chi più ne ha più ne metta).
Si sa che l’unico componente dei Residents che abbia ammesso di far realmente parte del gruppo e dal quale si è poi distaccato per intraprendere la carriera solista è Philip Lithnam detto “Snakefinger”, che ha anche mostrato il suo volto rompendo così l’interessante patto col diavolo degli altri componenti (ma è comunque stato importante per la band grazie ai suoi virtuosismi con la chitarra che hanno segnato tanto i primi album).
Ora, il complessino si è sempre divertito, nel corso degli anni, a distruggere ciò che è la musica come la conosciamo: se la maggior parte degli artisti o degli appassionati vedono la musica come insieme di battute regolari, note ordinate su di un pentagramma, uso di strumenti in armonia tra di loro, ebbene i nostri pensano esattamente il contrario. E’ come prendere tutti questi dati, metterli in un frullatore, mangiarli e rivomitarli su di una traccia musicale; in questo modo possiamo avere una decente rappresentazione di ciò che è la musica dei Residents, un’allegra anarchia di suoni che cozzano, che non seguono ritmi prescritti, ma dove ogni componente è libero di suonare come e cosa gli pare, ed è liberissimo di rubare musica altrui per oltraggiarla e violentarla con assurdi arrangiamenti alternativi (nel loro EP di debutto, Santa Dog, c’è un ottima decostruzione dissacratoria del classico pezzo Jingle Bell, tanto per fare un esempio).
Bhè venerdì c’era questo, ma soprattutto c’era anche altro.
C’era inanzi tutto la forte presenza scenica del cantante (Randy) nelle vesti di un vecchio signore con la vestaglia a righe e la canottiera a risaltarne il fisico cascante, calze bianche attillate e scarpe da clown, accompagnato da due loschi figuri con il volto completamente nero, occhiali da sole dorati con lenti rialzate e treccioline, agghindati con fastosi frac rossi da gran gala che rispondono al nome di Chuck e Bob. Scenario, l’oscuro salotto del vecchio signore: mobile antico, televisore rigorosamente rotto con il segnale assente, un divano vecchio e logoro e sullo sfondo tre cerchi che, durante o prima dei pezzi, mostravano figure distorte di persone fobiche e schizzofreniche che raccontavano le loro storie, mosse sapientemente a tempo dal vecchio Randy con il suo proiettore alla mano.
Quello a cui ho avuto l’onore di assistere era il Talking Light Tour, lo spettacolo che portano ora in scena i Residents e che grazie alle mie reminescenze di inglese ho potuto intuire essere basato su racconti di fantasmi, fobie umane, storie che fanno riaffiorare i nostri più antichi e nascosti timori, paura della “Mirror People”, come la chiama Randy, con cui avremo a che fare tutti noi prima o poi.
L’intero show penetra come una lama fredda e sconnessa nelle orecchie, l’atmosfera creata dalle note neanche troppo dissacrate stavolta è volutamente inquietante e paranoide. Randy saltella per il palco, gli altri due sono presenze sceniche di confine, ma che attirano per l’inquietudine e la bravura, soprattutto del chitarrista che non si spreca nei suoi assoli tremendamente possenti,di un noise estremamente calcolato nei minimi dettagli.
Ma è Randy l’anima della macabra festa, con la sua voce che meravigliosamente racconta storie di povere anime perse, che si sfoga con una potenza sempre rimasta celata nei precedenti lavori, che si diverte a cambiare e diventare quella di una vecchietta che disperatamente prega gli angeli o quella roca e alta di un povero diavolo impossessato da una delle persone dello specchio.
La line up, questa volta di soli tre elementi (“Fuck Carlos”, dice Randy a un certo punto, mentre presenta il gruppo), è la sintesi della pazzia di un uomo che fa suonare alle creazioni malate e distorte della sua mente canti di morte e storie maledette.
Un’esperienza unica e irripetibile, tanto da rendere questo affastellamento di parole che ho provato ad utilizzare per tentare di descrivere ciò che ho visto perfettamente inutile.
Leggete pure,ma poi dimenticatelo, perché per capire veramente dovevate essere li tra i pochi fortunati presenti.
Non c’eravate?
Peccato.