FILM DEL GIORNO: Until The Light Takes Us
Until The Light Takes Us è un documentario sul black metal del 2009 prodotto in America e portato sugli schermi dai registi Aaron Aites e Audrey Ewell. Forse è errato utilizzare un’espressione come “sul black metal”, perché lo spettatore o il lettore medio si aspetterebbero il classico documentario che ripercorre la storia del genere, con estratti live, interviste su questo o quel periodo di attività da parte dei membri arrivati fino ai giorni nostri, pezzi black metal sparsi qua e la e incollati male assieme come in un classico prodotto à la Mtv. No, qui non siamo davanti ad un documentario per fan di primo pelo: questa produzione va oltre la mera scena black metal con i suoi costumi, i suoi live apocalittici e la sua musica che disturba i più. Qui si indaga nell’intimità di quel tassello molto spesso dimenticato all’interno del ribollente calderone del genere, vale a dire le persone che stanno dietro al tutto. Quelle persone che, bene o male, un fan di vecchia data conosce, delle quali ha già chiaro il background e l’aura che le attornia, persone che passano davanti agli occhi dello spettatore senza presentarsi, dando per scontato ogni cosa sulla quale si esprimono, sapendo di rivolgersi a chi il black metal lo respira ogni giorno e vuole andare ancora più a fondo nella particolare conoscenza che ci propina questa produzione.
E’ principalmente su due personaggi che l’intero documentario ruota: Gilve “Fenriz” Nagell, una delle due metà che compongono il progetto Darkthrone, e Varg Vikerness, meglio noto come Burzum. Le telecamere seguono il primo nella sua vita di tutti i giorni (viaggi in treno con annessa perquisizione della polizia in cerca di droga, le serate al pub, il lavoro nello studio di registrazione) e il secondo nella prigione di Trondheim in Norvegia, dove all’epoca era ancora rinchiuso per l’ormai famosissimo assassinio di Euronymous dei Mayhem, assieme a diverse condanne per incendi dolosi a chiese norvegesi che gli sono valsi il massimo della pena, 21 anni.
La sensazione di intimità che si respira per tutto il documentario è in qualche modo allarmante: la regia riesce magistralmente ad immedesimare lo spettatore fin nei più intimi anfratti del pensiero e della visione del mondo dei personaggi. Ti fa quasi sentire parte del loro mondo, del loro ego. Ed è incredibile come, volenti o nolenti, si riesca ad accettare come comprensibile e giustificabile tutto ciò che dicono, tutta quella visione scomoda che li ha portati ad essere degli outsider per tutta la vita. E, cosa ancora più importante, viene soprattutto fuori la cultura di queste persone, tutti i solidi studi su cui basano le loro convinzioni, le loro teorie prepotenti che fanno paura, che non vengono sciorinate soltanto per fare scena, ma per pura e semplice convinzione personale, maturata nel tempo e coadiuvata da argomentazioni spiazzanti.
Ma non c’è solo questo in questa patinata produzione americana: per estendere un qualche interesse verso il film ad un pubblico più vasto ecco inserite le classiche storie di sempre. La fondazione dell’Inner Circle che bazzicava nell’Helvete di Oslo, i roghi delle chiese norvegesi, la storia di Euronymous e Varg, il processo a quest’ultimo, la storia di Dead e le testimonianze di chi lo ha conosciuto o di chi ha suonato con lui. Insomma, le storie di sempre e che sempre si raccontano in questo ambito. Ma ovviamente c’è di più, molto di più, ed è questo “più” che dona al documentario la sua impronta unica ed emozionante, lo spunto di riflessione, la bellezza commovente che sprizza a tratti tra i cambi di scena e gli estratti di dialoghi.
Il vero protagonista risulta essere, alla fin fine, quel fragile personaggio che è Fenriz. Questo ragazzone dalle occhiaie indelebili, con una cultura musicale sterminata, che fuma troppo, beve birra del discount, si emoziona per delle vecchie cassette trovate in una squallida bancarella nascosta in un vicolo maleodorante nei meandri di Oslo. Questo adulto-bambino, anima di uno degli storici gruppi raw black metal della scena norvegese, un gruppo rabbioso, satanico, tagliente, che contrappone a questo suo lato animalesco una fragilità ed una timidezza commoventi. Quello che dice, e come lo dice, è così sentito, vero, sincero, da far venire il magone. Quello che vuole, quello che pensa, lo dice senza troppi problemi (in musica o a voce): ha vissuto il fiorire del movimento dagli esordi, ha conosciuto i più grandi che oggi non ci sono più, ha respirato black metal per tutta la sua vita. Ed ora, solo una cosa fondamentalmente preme questo ragazzo del Nord (con la enne maiuscola) che ha visto morire amici, band, sogni, ideali, che ha preso strade differenti rispetto ad altri ed è sempre e comunque rimasto se stesso: che il black metal, così come lo ha vissuto, non diventi una moda, come ogni esponente di un movimento underground dovrebbe pensarla. E qui scatta la vera cattiveria del film.
Terzo personaggio inserito nel contesto e che mi piace considerare l’antagonista (perché qui i cattivi non sono quei ragazzi che non si vergognano di essere loro stessi, ma sono invece persone come questa, i figli della società snob che vogliono fare gli outsider quando sono invece invischiati in essa fino al collo) è questo artista norvegese, Bjarne Melgaard, che da qualche anno usa tematiche prese dal black metal nelle sue opere: dunque personaggi con il corpse painting, croci rovesciate, foto di artisti black metal durante i live ecc. Inizialmente questo personaggio è inserito in sordina (a tratti ci si chiede anche quale sia la sua funzione all’interno del documentario), ma è solo arrivando al finale che tutta la consapevolezza si spalanca e crolla addosso allo spettatore come un cumulo di macerie. Il lapidario finale nel quale Fenriz dice quelle semplici parole: “io spero che tutta questa cosa non diventi una moda” mentre quel venduto di Frost (Satyricon) si tagliuzza e distrugge con un coltello simboli cristiani e mobilio durante una performance live organizzata dal bieco artista davanti ai borghesotti di Milano che si potranno vantare di aver visto uno spettacolo troppo fuori dagli schemi per la loro ordinaria e grigia vita, nel tentativo di anelare a quel brivido del proibito che mai ha sfiorato la loro esistenza; il finale che vede l’utilizzo di un montaggio maledetto, che impietoso ci mostra brevi scatti di Fenriz che visita l’Helvete oggi, ristrutturato, completamente diverso, asettico, spogliato completamente della sua storia, mentre quelle parole ti rimbombano ancora nella testa e Frost si vanta di essere stato scelto da un artista per quel suo canceroso vezzo di apparire.
E all’improvviso ti torna in mente quella straziante scena a metà film, dove Fenriz visita la mostra di Melgaard aggirandosi come un bambino sperduto per le bianche stanze dove foto dei suoi amici, della sua vita passata, della sua arte spiattellata ovunque in un contesto errato formano un sarcofago inaccettabile per la scena black metal, in un crescendo di imbarazzo, rabbia repressa, disagio che rimbomba assieme a quella frase così sapientemente messa a conclusione del tutto. E la botta decisiva si ha nell’ultima ripresa, dove, sempre alla mostra di Milano, la telecamera riprende uno dei tanti schermi disseminati per l’esposizione, e sulle note dei Mùm altri non c’è che Fenriz stesso, che cammina nella foresta in una scena estratta dallo stesso documentario che abbiamo appena finito di guardare e rallentata per l’occasione, a sua insaputa intrappolato nella terrificante commercializzazione di tutto quello che lo ha tenuto in vita fino ad ora. E la cosa è talmente crudele che ci si sente quasi in colpa: come se anche noi, spettatori di un prodotto che racconta le persone dietro ad una delle scene più controverse di sempre, avessimo in qualche modo contribuito un po’ di più ad incrinarne la barriera chiusa ed inavvicinabile che da sempre la attornia. E capisci anche che la forma documentaristica, sempre atta a raccontare e svelare, è il mezzo ingannatore che ha ormai portato agli occhi delle masse quello che doveva restare a conoscenza di pochi eletti, in una sorta di autodistruzione che annichilisce sia lo stesso film, sia lo spettatore lasciato a rimuginare sul rimorso di ciò che ha appena contribuito nell’assistervi, mentre scorrono inesorabili i titoli di coda.
Anche la colonna sonora è molto azzeccata: ho ritrovato i Mùm (che non ascoltavo da anni), un collettivo di elettronica islandese molto particolare e che ben si adatta alle atmosfere del film, e i migliori pezzi ambient di Burzum (tra tutti spicca la bellissima ed evocativa Rundgang Um Die Transzendentale Saule Der Singularitat). In sostanza, un bel modo di vedere il black metal da un’altra prospettiva: una prospettiva più umana, sentimentale, che non è da tutti cogliere, ma che consiglio a tutti di provare. Non mancano certo le testimonianze di altri musicisti della scena, ma quelli fanno parte del lato meramente documentaristico del film. Quello che invece ho voluto mettere più a fuoco è stato, appunto, il lato sentimentale e sadico che si cela dietro a queste riprese.
Il film si trova solo in lingua inglese e con i sottotitoli sempre in inglese. Su Youtube c’è per intero, ma non ha i sottotitoli. Io ve lo lascio comunque in embed, giusto per farvi assaporare questo intenso viaggio nei recessi più reconditi di personaggi così prorompenti musicalmente, ma allo stesso tempo fragili e schiacciati dal peso di un mondo ridicolmente bigotto che li costringe negli angoli bui della società che sono ormai diventati la loro isola felice. Finché la luce non se li prenderà.