I Vostok e “Lo spazio dell’assenza”: una parabola memorabile di musica ed emozioni
Tempo fa (molto, troppo tempo fa, e chiedo venia ancora oggi a voi lettori e soprattutto al gruppo che ha sfornato l’album di cui voglio parlarvi qui) ci scrive Giuseppe Argentiero dei Vostok, progetto musicale proveniente da Brindisi, che si presenta con queste parole: “Ciao, siamo i Vostok (un duo influenzato da Dead Can Dance, Corde Oblique, Argine…)”. Ok, non c’era bisogno di altro per accendere la mia curiosità all’istante. Era marzo, l’inverno cominciava a ritirarsi per lasciare spazio alla primavera, ai pollini, alle allergie e all’arrivo dell’estate.
Per quanto possa sembrare egoista da parte mia, archivio per un po’ questo duo brindisino (che mi aveva comunque lasciato qualcosa di latente, che piano piano sentivo maturare all’interno) per seguire altre strade musicali temporanee. L’estate, il sole, il caldo non sono proprio nelle mie corde; portano all’inattività, intorpidiscono i sensi e la musica diventa sempre troppo inerte, inespressiva e monotona.
Oggi è una grigia domenica di settembre, l’aria è fresca e risveglia i miei polmoni. Mentre respiro, ascolto i Vostok e mi emoziono. Non esiste cornice migliore: c’è la fresca disperazione della voce di Mina Carlucci, un diamante raro e prezioso che scuote l’anima con i suoi acuti precisi come frecce emozionali che mirano dritte ai sensi; ci sono gli arrangiamenti neoclassici e folk di Argentiero alla chitarra classica e acustica, degno erede della migliore scuola dei nostri tempi. Vi ho ritrovato molto dei Sieben, dei Corde Oblique, del dark folk di qualità con spruzzate di jazz qua e la grazie agli altri musicisti che li hanno voluti aiutare a “riempire lo spazio” (come dice la band stessa) con violini, trombe, sax, percussioni e quant’altro.
“Il programma Vostok (“Est”) fu il primo progetto sovietico di missioni spaziali umane che riuscì, per la prima volta nella storia, a portare un uomo nello spazio. Il 12 aprile 1961 il cosmonauta Jurij Alekseevič Gagarin divenne, a bordo della navicella Vostok 1, il primo essere umano ad orbitare intorno alla Terra”. Questo lo scenario che sta dietro al nome del duo pugliese: un senso di sospensione, di malinconica solitudine e di ancestrale paura nell’agglomerato oscuro dello spazio profondo. Sensazione che per tutto l’album permea l’ascoltatore, abbracciandolo in un mistico rituale pagano fatto di ballate cadenzate e gelidamente evocative; l’angelica voce della Carlucci ci grida a squarciagola o sussurra delicatamente di amori lontani, non ancora dimenticati; ci porta per mano nei meandri più profondi dell’anima stessa del progetto, come una cantastorie che leggiadra si districa tra le macerie emotive di Agentiero, autore di tutti i testi, mente e cuore della suggestiva coppia, che abilmente trova nella sua compagna di viaggio un perfetto mezzo di comunicazione emotivo. Con la sua musica che pesca a tratti dal folk che i nostri tempi hanno resuscitato, ma che vira inaspettatamente verso tracciati arzigogolati di stampo jazz, assoli viscerali a completare un quadro di fresca beltà, prorompente bravura e sferzante consapevolezza che davvero in Italia, se si cerca bene, il talento c’è eccome, “Lo spazio dell’assenza” è un debutto straordinario, sentito, riuscitissimo.
Davvero non riesco ancora a perdonarmi per aver fatto passare tutto questo tempo prima di recensire lo splendido lavoro di questi ragazzi. Per spezzare una lancia a mio favore, posso solo dire che ci vuole la giusta atmosfera per l’ascolto di questo album: autunnale, piovoso e malinconicamente grigio, come i lineamenti dell’astronauta sulla copertina che, valigia alla mano, è pronto ad esplorare il nuovo, l’immenso e lo spaventoso nel suo scafandro tratteggiato; così come l’ascoltatore deve previdentemente bardarsi con una qualche armatura protettiva per non essere risucchiato dal vuoto cosmico di emozioni racchiuse nell’opera, troppo difficili da gestire se non incanalate in un’acustico duo brindisino, potentissimo nella sua semplicità.
In embed vi lascio i pezzi che più mi hanno colpito: la straordinaria potenza di “Lontano dalla luce”, dove tutto il talento della cantante esplode in acuti da brivido amalgamati sapientemente con il serpeggiante sax che si getta intrepido in articolati assoli, e il bellissimo finale strumentale “Komet 42”, che mette a nudo tutte le influenze folk e neoclassiche del progetto. Ma, e lo ripeto sempre e continuerò a ripeterlo per ogni album che recensirò in futuro, il lavoro è da ascoltare tutto d’un fiato, per 33 minuti di meravigliosa musica italiana indipendente e fuori da questo mondo, viandante in uno spazio che l’assenza di qualcuno può scavare, ma che nella sua traduzione in note e voce trova un percorso risolutivo verso un esorcismo completo della propria anima, sia di chi incide, sia di chi ascolta.
Qui, infine, potete scaricare gratis l’album.
Voto: (4 / 5)
Vostok – Lo Spazio Dell’Assenza (Golden Morning Sound – 2013)
- Me Terah – Intro
- Lontano Dalla Luce
- I Tuoi Occhi
- Come Marea
- Bonjour Tristesse
- Lacryma
- Jerusalem
- Le Néant Scintillant
- Komet 42
Una risposta
[…] galoppante su ritmiche à la Ianva o Egida Aurea, sul finale anche simile ai cari Vostok grazie al mesmerico sassofono accorpato ad arpeggi luminescenti, mentre “L’Uva […]